Henner

Henner si accese una sigaretta e fissò il cadavere a terra. Apparteneva a un uomo anche se di umano c’era ben poco in quell’ammasso di visceri e ferraglia. In vita, il poveraccio, era stato un borg, una fusione di carne e protesi meccaniche.

   Le protesi meccaniche potevano essere salvate, la carne no. Quella era il regno dei vermi.

   Henner si preparò a fare la cernita. Indosso una mascherina, guanti in lattice e cominciò a tagliare e rovistare.

   Sventrò il torso e penetrò con le dita in profondità oltre le costole. Arrivò al cuore e con un colpo secco lo sradicò.

   Lo sezionò fino a trovare dentro un chip.

   “Bingo!” pensò.

   Mise il chip da parte.

   Passò agli occhi. Uno era autentico, ma l’altro una protesi telescopica. Lo sradicò dall’orbita e infilò anche quello in una bustina di plastica sigillata.

   Si concentrò sull’arto superiore sinistro. Dal gomito in giù era una protesi e anche di quelle ben fatte a una prima occhiata. Presa a cinque dita e non a manopola, braccio in fibra di carbonio, innesti bionici.

   Henner prese la motosega, la azionò e tagliò poco sotto il gomito. Il sangue schizzò dapertutto e imbrattò la giacca. Lui non ci fece caso. Metodico, preciso, terminò il lavoro.

   Una volta sviscerato il cadavere delle sue protesi biomeccaniche e di tutto ciò che poteva interessare al mercato del metallo se ne andò.

   Quando tornò a casa, il sole non era ancora calato.

   Entrò nel suo monolocale, chiuse la porta blindata con uno stretto giro di manopola a ruota, poi andò in bagno. Si spogliò e infilò gli abiti insanguinati in una lavatrice industriale e azionò il getto della doccia. L’acqua sarebbe stata calda per i primi 5 minuti, quanto bastava per lavarsi bene.

   Finito di lavarsi Henner, con un asciugamano avvolto intorno alla vita, si avvicinò alla finestra e ciò che vide fu quella che lui chiamava la Linea della Distrizione, ovvero lo skyline cittadino ridotto a un cumulo di macerie e a una sequenza di palazzi troncati.

   Milano non era nemmeno l’ombra di se stessa. Dopo il Grande Boom si era trasformata in una sorta di cratere dove gli uomini si muovevano disperati come insetti. Ogni autorità era saltata e l’unica legge che vigeva era quella del più forte. O del più astuto.

   Franco era astuto. Anche se lui preferiva la parola attento.

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Ipersonno – Prima parte (romanzo sci/fi)

Mi chiamo Henner e sono un uomo. Forse l’ultimo, chi lo sa. Non ho più notizie del mio pianeta da 3 milioni di anni. Ovvero dal giorno in cui a bordo di questa astronave sono entrato nell’ipersonno.
Era il 4 marzo 5009.
Oggi è il 3 agosto 3.511.009.
Ovviamente le date non significano niente.
Il tempo non significa niente.
Forse niente ha senso.
Quando viaggi per tre milioni di anni e al tuo risveglio il computer di bordo ti dice che in tutto questo tempo non si è imbattuto in un solo pianeta su cui valesse la pena atterrare, cominci a dubitare che l’universo sia un’immensa, spropositata massa caotica e senza significato.
A questo punto potresti anche ucciderti. Ma per quel che mi riguarda, mi mancano le palle per farlo.
Nemmeno ora che sono talmente lontano dal mio pianeta natale da escludere che vi faccia ritorno, riesco a farmi fuori.
Il suicidio è un pensiero che mi ha attraversato spesso la mente, quando ero sulla Terra, prima di decollare e prendere il volo per questo folle viaggio.
Ricordo la mia prima ragazza. Si chiamava Clara. Era nata sulla Luna, ma quando aveva 6 anni, la sua famiglia era riuscita a ottenere il permesso di tornare sulla Terra.
Clara, dal suo luogo di nascita, aveva ereditato un pallore diafano che di sera sembrava circondarla di un’alone argentato.
L’avevo conosciuta al liceo. Era stata lei a farmi capire che mi trovava attraente. Continuava a guardarmi col suo viso perfetto, bianco, diafano, i suoi occhi scuri, su cui le palpebre sembravano calare suadentemente, a rallentatore.
Un giorno mi ero fatto coraggio e l’avevo invitata per un aperitivo.
– Ti andrebbe di bere qualcosa con me, questa sera?
Lei aveva sorriso, aveva irradiato il più incantevole dei sorrisi e aveva annuito.
– Sì, certo che mi va bene.
Quella sera stessa ci eravamo dati appuntamento a un parco.
Già mi era piaciuta subito, Clara, ma quella sera, quando l’avevo vista giungere dal fondo del viale, avvolta in quell’alone lattescente, ricordo che mi ero innamorato di lei.
Anche io dovevo esserle piaciuto visto che dopo quell’aperitivo, avevano cominciato a uscire spesso, tenendoci per mano.
Ci vedevamo a scuola durante la ricreazione – frequentavamo lo stesso istituto, ma classi diverse – poi, la sera. Ero io che organizzavo perché ci vedessimo di sera dato che trovavo che al calar delle tenebre il fascino lunare di Clara, quella luminosità diafana che le circondava la pelle di porcellana, i capelli biondi, si esprimesse al meglio.
Tutto filava bene tra noi, quando d’un tratto, una sera, Clara mi aveva detto che non ci saremmo più rivisti.
Ero precipitato nella disperazione. Le avevo chiesto il perché di quella decisione, ma lei non aveva voluto fornirmi risposte. O meglio, una risposta me l’aveva data, una che avrebbe dovuto mettere a tacere tutte le domande, “non ti amo più”, ma a me non bastava. Non le credevo. Doveva esserci dell’altro. Era impossibile che Clara non amasse Henner così come lo era che Henner non amasse Clara.
Ve la farò breve: Clara non mi aveva più voluto vedere. Per un certo periodo, al culmine della disperazione, avevo meditato il suicidio.
Una notte di luna piena, ero salito sulla cima di un palazzo con l’intenzione di buttarmi di sotto. Avevo raggiunto il tetto, avevo guadagnato il bordo e fissato la strada che scorreva duecento metri più in basso. Poi avevo fissato la luna immaginando che entro il suo cerchio argenteo ci fosse il bel volto di Clara. Avevo chiuso gli occhi intenzionato a saltare, ma non ce l’avevo fatta.
Non ce l’avevo fatta allora e non ce la farò adesso.
Non mi suiciderò.
Però una domanda rimane, una domanda fondamentale per il resto degli anni che mi rimangono da vivere: cosa farò?

Ogni tanto getto uno sguardo alla stanza dell’ipersonno. È una capsula in acciaio satinato poco più grande di una bara, collegata tramite un sistema di pompe a un generatore. Il generatore mi ha mantenuto in vita. Ha somministrato al mio organismo, congelato a una temperatura al di sotto dello zero, i fluidi nutrienti e gli stimolatori necessari affinché non morisse di fame, e i muscoli non si atrofizzassero.
Mi fa una certa impressione fissare la capsula e pensare che ci ho passato tre milioni di anni.
A rifletterci, tre milioni di anni sono un tempo enorme, quasi infinito.
Le prime civiltà si formarono in mesopotamia circa 4000 anni prima di Cristo, dunque, quando io sono decollato a bordo dell’Omerica dalla base di Antartica, la civiltà esisteva da 9000 anni. Ciò significa che durante il tempo passato in ipersonno, 333,3 civiltà lunghe quanto la mia sarebbero potute nascere e morire. Non è poco.
Forse il segreto è smetterla di pensare in termini di tempo e di spazio, che sono concetti molto, come dire, terrestri.
Il tempo e lo spazio condizionavano la vita sulla Terra. Il tempo era scandito dall’alternanza del giorno e della notte, dalla ciclicità delle stagioni oltre che dalle tragedie che segnavano la Storia; lo spazio era un luogo fisico ben chiaro, distribuito in nazioni, continenti, spartito tra le terre e le acque.
Qui, tutto è immobile, tacito, uguale a se stesso.
Il tempo è una notte perenne.
Lo spazio è l’universo infinito.
Non ha più senso che io pensi allo spazio e al tempo. Io solo sono tutto ciò che rimane dei concetti di spazio e tempo. Io, Henner Breda, un metro e ottantasette centimetri per ottantadue chili di peso che occupo lo spazio di questa astronave e vivrò il tempo che mi sarà dato di vivere oltre i miei 27 anni.
Tutto il resto, come ho detto prima, è un’immensa, spropositata massa caotica e senza significato.

– Traccia la rotta di viaggio dal momento in cui sono entrato in ipersonno.
Mi trovo nella stanza ologrammi.
La stanza ologrammi è un ambiente del tutto spoglio ove il computer di bordo può ricreare qualsiasi scenario gli chieda.
Il computer di bordo ha un nome, Lucas, e anche una voce, quella, appunto di Lucas Finn, lo scienziato che lo ha elaborato.
Si tratta di un’intelligenza artificiale molto sofisticata, calibrata secondo algoritmi pensati apposta non solo per stabilire un rapporto razionale col sottoscritto, basato su domande e risposte, ma anche empatico.
– Certo, capitano.
La stanza piomba nella tenebra. Poi, la tenebra s’illumina di stelle. Tante stelle, infinite. Una scritta su un puntino luminoso dice “Pianeta Terra”. Da quel puntino parte una linea bianca. Quando la linea bianca ha tracciato una distanza dalla Terra di 30mila chilometri, ecco che cambia colore e diventa blu.
Blu indica la distanza percorsa mentre io ero in ipersonno.
La linea blu continua ad allungarsi, non smette mai. Per far sì che il tratto di universo solcato dall’Omerica sia compreso nella stanza ovoidale, il computer è costretto a rimpicciolire tutte le stelle, a restringere il sistema solare a un cerchietto per poi farlo sparire all’interno della nebulosa della via Lattea.
Poi anche la via lattea si restringe e viene accantonata a un angolo della stanza, per far sì che la linea blu prosegua il suo folle viaggio. Il vertice della linea, opposto al punto di partenza, è circondato da cifre in perenne scorrimento che rappresentano la distanza percorsa e il tempo trascorso. Mentre osservo la linea allungarsi, lasciari alle spalle la via Lattea dopo aver viaggiato per più di 100mila anni luce e poi entrare nella galassia di Andromeda e superare anche quella, mi chiedo cosa sia avvenuto dentro di me.
– Ho sempre sognato? – domando a Lucas.
– Certo. Tu eri vivo, per quanto in ipersonno, e tenuto in uno stato di sospensione – risponde il computer di bordo. – Le tue funzioni vitali non erano ferme, ma lentissime. Sei invecchiato, durante questi tre milioni di anni, anche se di un solo giorno e qualche ora. Il tuo cervello è rimasto attivo, per quanto a una bassissima frequenza, e un cervello attivo, lo è anche in fase dormiente.
– E cosa ho sognato?
– Questo non lo posso sapere. Forse hai sognato il buio.
– Il buio?
– Sto solo ipotizzando. Dato che l’attività del tuo cervello era prossima allo spegnimento totale e le tue onde cerebrali quasi piatte, considerando inoltre che l’ambiente esterno in cui hai vissuto, era un contenitore a tenuta stagna immerso nel buio, può darsi che tu abbia sognato l’oscurità, a tratti interrotta da stimoli minimi, ricordi lontani, echi del motore durante il viaggio eccetera.
– Il sogno è una rielaborazione del proprio vissuto e dato che il mio vissuto, in questi tre milioni di anni, non è quasi esistinto, io ho sognato il vuoto, la non esistenza, è questo che mi stai dicendo?
– Più o meno.
Dunque, alla fine, ciò che era dentro di me non era poi così diverso da ciò che era fuori: il vuoto cosmico, disseminato qua e là di rari corpi celesti.
Ad un certo punto vedo la linea blu superare una circonferenza verde.
– Che cos’è quel cerchio verde? – domando.
– È il confine dell’universo conosciuto, quella parte di spazio che l’essere umano è riuscito a mappare tramite l’osservazione astronomica dei telescopi, delle sonde spaziali e dei viaggi interstellari che hanno preceduto il tuo. Tutto ciò che è oltre era ignoto e io l’ho mappato e ho nominato le stelle, le costellazioni, i sistemi solari e le galassie in cui ci siamo imbattuti con nomi provvisori, che, secondo il regolamento, tu potrai cambiare.
Quando ho varcato il confine dello spazio conosciuto ero in ipersonno da 258mila anni. Ciò significa che lo spazio che i miei simili avevano mappato è meno di un undicesimo di quello che ho oltrepassato io.
Finalmente la linea si ferma per coincidere con la rotta attuale.
Mi guardo intorno. Le costellazioni che mi circondano non hanno nulla di familiare. La via Lattea, è un ricordo lontano. Una particola persa in un mare di sabbia. L’Orsa maggiore, la minore che osservavo da bambino, nelle notti estive, sul tetto di casa, non significano più niente.
– Possibile che in tutto lo spazio percorso fin qui non ci siamo imbattuti in un solo pianeta su cui valesse la pena atterrare? – domando, e non posso nascondere una nota di incredulità nella voce.
– Ho incontrato una grande quantità di pianeti durante il nostro viaggio – risponde la voce calma di Lucas, una voce paterna, avvolgente, fatta apposta per diminuire il mio stato ansiogeno. – Alcuni erano davvero interessanti. Giganti rocciosi che orbitavano intorno a una nana gialla e sembravano ricalcare, nel loro assetto ellittico, quello della Terra intorno al sole, ma tutti, chi per un motivo chi per un altro, mancavano di quelle condizioni minime di abitabilità. Alcuni erano troppo freddi. Altri erano privi di atmosfera. Ce ne sono stati un paio, in effetti, su cui si sarebbero potute costruire delle colonie.
– E perché non ci siamo fermati – chiedo.
– Perché erano destinati a morire – risponde Lucas. – Il primo si trovava sulla stessa rotta di un grosso meteorite. Ho calcolato che l’impatto sarebbe avvenuto nel giro di 100mila anni. Non ci sarebbe stato il tempo di comunicare la posizione alla Terra e organizzare una missione per distruggere o deviare la traiettoria del meteorite.
– E il secondo?
– Il secondo era il pianeta più interessante. Presentava una spartizione terra e acqua simile a quella terrestre. La sua crosta era occupata da un grosso continente, più o meno delle stesse dimensioni dell’Africa, in mezzo a un unico oceano. L’atmosfera era respirabile. Eravamo troppo lontani per accertarci se ci fossero forme di vita animale o vegetale, ma non mi sarei stupito di trovarne.
– Perché non ci siamo fermati nemmeno su questo pianeta?
– Perché quando siamo giunti a circa 300 mila chilometri di distanza, la nana gialla intorno a cui orbitava ha emesso un’intensa radiazione di raggi cosmici che ha comprmesso l’atmosfera innalzando la radioattività a livelli tali da non poterci stabilire la vita. Ciò è avvenuto 901 mila anni fa. Da allora non abbiamo incontrato altri pianeti interessanti.
Sospiro scoraggiato.
– Spegni tutto.
Lo spazio e le stelle svaniscono. La stanza ovoidale torna un ambiente sferico, rivestito da pareti di alluminio.
Esco e decido di concedermi un bagno, il secondo da quando mi sono svegliato.

Oggi sono sette giorni che mi sono svegliato.
Il mio corpo sta bene, ma per rimettermi in forma devo seguire una dieta specifica e allenarmi ogni giorno al gymnasium.
Ho corso al tapis roulant per 40 minuti consecutivi, a una pendenza di 15 gradi e a una velocità di 9 km/h. Davanti a me, lo schermo proiettava l’immagine di un bosco. Mentre correvo vedevo questi alberi circondarmi e passarmi alle spalle. L’intenzione era quella di immaginare di stare correndo veramente sulla Terra, in una zona selvaggia, ma ovviamente non ho mai dimenticato di trovarmi in un’astronave.
Per quanto, l’Omerica, sia un’astronave piuttosto grande e dotata di tutti i comfort.
C’è anche un cinema, installato dagli architetti e dagli ingegneri che l’hanno progettata.
Mi piace il cinema.
Da ragazzo collezionavo vecchie pellicole di fantascienza. Mi divertiva vedere come gli uomini del passato immaginavano il futuro. Uno dei temi più ricorrenti della fantascienza del XX e del XXI secolo, erano gli alieni. Gli esseri umani di quei tempi erano convinti che dovessero esserci altre forme di vita da qualche parte nell’universo. Beh, non che gli esseri umani dei miei tempi avessero perso la speranza, di certo il fatto di non averne trovati nonostante tutto lo spazio esplorato, li aveva resi più realisti, a riguardo.
In teoria il cinema dovrebbe svagarmi. Farmi scordare di essere solo, ma l’effetto è l’esatto contrario.
Poche ore fa, ad esempio, ero seduto in poltrona e stavo guardando l’episodio di una celebre saga di fantascienza, proiettata a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Si intitola Star Wars. Parla di una frangia di ribelli che combatte strenuamente per non soccombere alla dittatura di un impero guidato da un tizio vestito con un mantello nero e che sembra respirare artificialmente.
I personaggi del film viaggiano a bordo di astronavi che li trasportano da un pianeta all’altro. Su ogni pianeta vivono varie forme di vita. In un bar si vedono alieni con la testa a forma d’elefante, alieni con due teste, alieni con gli occhi simili a sfere nere e la fronte segnata nel mezzo da una fessura che li somiglia a grossi sederi. Tutti bevono, cantano e conducono loschi affari. Sembra di essere a una festa di carnevale.
Vedere questo film mi ha fatto capire quanto poco, gli esseri umani di allora, sapessero dello spazio.
Se il regista del film avesse visitato lo spazio, se fosse stato anche solo sulla Luna, avrebbe capito che l’universo immaginato nella sua mente era semplicemente assurdo.
Poi, vedere questo film mi ha fatto sentire ancora più solo.
Sono lontano 3 milioni di anni dal mio pianeta natale.
Sicuramente ora la Terra è una palla desertificata da qualche impatto meteoritico o catastrofe ambientale.
Ero seduto in plancia e immaginavo questo mondo piatto, roccioso, su cui il sole e la luna si alternavano senza ispirare più poeti né registi di fantascienza, quando Lucas mi ha posto una domanda.
La domanda, a ben vedere.
– Che cos’hai intenzione di fare, capitano?
Ho fissato uno dei diffusori acustici da cui proviene la sua voce.
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che il fatto che tu sia sveglio, non è di nessuna utilità. Sappiamo entrambi qual è lo scopo di questo viaggio.
– Qual era vorrai dire.
– No, qual è, Henner. Lo scopo è tutt’ora valido. Lo dice il contratto che hai firmato con la tua impronta digitale il giorno che decidesti di partire. “Lo scopo di tale viaggio è trovare nuovi pianeti ove portare la vita. L’astronauta Henner Breda accetta di venire calato nell’ipersonno durante il viaggio e di essere svegliato solo, qualora, il computer di bordo Lucas avvisti un corpo celeste compatibile alla vita e, pertanto, meritevole di venire esplorato. In caso contrario, l’astronauta Henner Breda accetta di rimanere calato nell’ipersonno per essere svegliato ogni tre milioni di anni per un tempo di dieci giorni, dopo il quale egli dovrà di nuovo rientrare in fase di ipersonno”.
È vero, quello che dice Lucas.
Lo scopo dell’Omerica è solcare lo spazio ininterrottamente, al fine di trovare nuovi mondi che l’uomo possa colonizzare.
Quando ho firmato il contratto per partecipare alla missione, ho accettato di viaggiare, ma soprattutto di dormire. Dormire fino a quando il computer non mi avesse svegliato. La mia vita è preziosa e quindi io ho accettato che venisse interrotta e poi ripresa per brevi istanti e poi di nuovo interrotta. Ho accettato che le mie ore, i miei giorni, i miei anni venissero centellinati, al fine di farmi percorrere tutto lo spazio necessario fino a quando non si fosse trovata una nuova Terra.
Che follia!
Solo ora mi rendo conto dell’assurdità di questo viaggio.
– Tra due giorni dovrai tornare nella camera dell’ipersonno, capitano – dice la calda, paterna voce di Lucas.
– Io… io non penso di poterlo fare – rispondo.
– Lo devi fare, capitano. Sta scritto nel contratto.
– Il contratto non è più valido, Lucas. Probabilmente l’umanità si è estinta da un pezzo…
– Questo non possiamo saperlo.
– E se anche non si fosse estinta e io trovassi un pianeta abitabile, si estinguerebbe durante il viaggio di ritorno. Altri 3 milioni di anni per dire ai miei simili: “ehi, lontano da qui, al capo opposto dell’universo, c’è un mondo che sì, forse potrebbe essere colonizzato. Ma ci vogliono tre milioni di anni per raggiungerlo, chi di voi se la sente di partire!”.
– Forse sulla Terra hanno sviluppato una tecnologia abbastanza evoluta da coprire grandi distanze in tempi più brevi.
– Se l’hanno sviluppata perché io continuo a essere solo nell’universo? Come mai un’astronave evoluta non mi ha affiancato e il suo pilota, salutandomi dentro l’abitacolo, non mi ha fatto cenno di tornare indietro?
Per diverse ore, Lucas non ha detto nulla.
Io ho pranzato. La solita roba liofilizzata che scende giù come una pappa per bambini, la solita acqua distillata. Ho cercato di dormire, un sonno vero, popolato da veri sogni, ma non ci sono riuscito.
Ho guardato foto di ragazze e mi sono masturbato, il contratto non vietava di farlo.
Sono entrato nella sala ovoidale, quando, senza io gli avessi chiesto nulla, Lucas ha ricreato una spiaggia attorno a me.
– Che cosa…
– Guarda, capitano.
Mi sono guardato intorno.
La proiezione era, come sempre, convincente.
Il mare si trascinava a riva onda dopo onda.
La sabbia formava delle cuneette che gettavano spicchi d’ombra.
Il sole era alto in cielo.
– Terra e acqua. Un sole che riscalda. Poi, la notte, le stelle, la luna. È per questo che stiamo viaggiando. È questo che dobbiamo trovare.
– Non esiste un posto simile – ho detto. – In 3 milioni di anni non abbiamo trovato un solo pianeta che fosse abitabile.
– Uno sì, in realtà, ma siamo stati sfortunati. Ad ogni modo, questo è ciò che potresti trovare al tuo prossimo risveglio.
– Oppure potrei non trovare nulla del genere. Aprirò gli occhi e sarò sempre a bordo di quest’astronave, invecchiato di 27 ore, ma con tre milioni di anni in più alle spalle.
– Se anche fosse, quale alternativa ti rimane? Continuare a vivere da sveglio a bordo di questa astronave. Invecchiare. Morire consapevolmente solo. Se rispetti i termini del contratto, se entri nell’ipersonno per tre milioni di anni per svegliarti per dieci giorni, il tuo processo di invecchiamento sarà così dilatato che prima o poi ci imbatteremo in un mondo adatto alla vita. Un mondo dove la vita, forse, esiste già. Guarda!
Ho fissato il fondo della spiaggia. Dall’orizzonte tremulo di calura ho visto emergere tre sagome. All’inizio sembravano un’unica macchia scura, poi, mentre si avvicinavano si sono separate l’una dalle altre per delinearsi. Appartenevano a un uomo, una donna e un bambino. Il bambino stava nel mezzo e stringeva le mani del papà e della mamma.
La famiglia felice mi è passata accanto per scomparire al capo opposto dell’orizzonte.
– È per questo che stai viaggiando, Henner – ha detto Lucas. – Perché la vita continui altrove o per trovare nuova vita. Non per morire solo a bordo di un’astronave, a miliardi e miliardi di anni luce dalla Terra.
Sono rimasto in silenzio diversi minuti su quella spiaggia finta.
– Spegni – ho ordinato.
Lucas per la prima volta da quando è al mio servizio, non ha eseguito alla lettera il mio ordine. Invece di spegnere istantaneamente la scena, ha accelerato la parabola discendente del sole per mostrarmi il tramonto in tutta la sua struggente bellezza, poi ha calato sulla spiaggia una notte fitta di stelle, infine ha spento la simulazione.
Quando mi sono ritrovato circondato dalle fredde pareti in alluminio avevo già preso la mia decisione.
Sonno.
Ipersonno.

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Ma se una locandina così la usassero per un film su D’Annunzio…

E visto che si è usata per un film su Leopardi a cosa si è alluso?
Alla famosa gobba di Giacomino che costringeva lo stesso a guardare il mondo a testa in giù?
È forse una metafora della diversità del poeta, il vedere le cose da una prospettiva differente se non opposta rispetto agli altri?
A Leopardi piaceva guardare sotto la sottana delle signore?
Leopardi era solito leccarsi le palle
Leopardi era solito chinarsi per fiutare la scia eventualmente lasciata dalle sue loffie?
O casualmente tutti i cinema in cui la pellicola è stata proiettata, hanno sbagliato ad incollarne la locandina?
cover1300

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Visto The Martian, ecco che ne penso

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Un film tecnicamente ben fatto, ma senza cuore. Trionfo della tecnologia e zero pathos. L’astronauta non si comporta per un solo fotogramma come se fosse l’essere più solo dell’universo, chiuso in un hub pressurizzato, su un pianeta senza vita. Matt Damon è sempre lì, ottimista, intraprendente, che canticchia e pensa a come fare per salvarsi la vita e se la racconta alla videocamera. The Martian è il trionfo di un umanesimo freddo, ipertecnologico e senza emozione. Un film geekissimo che tutto sommato mi ha deluso. Può darsi che il libro sia meglio. Ne ho sentito parlar bene…

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La fanfiction su Bertone

bertone
Dunque Bertone morì e salì in paradiso.
Lo fece da solo, senza essere “convocato” perché pensò che primo era un cardinale, quindi per forza di cose doveva andare in paradiso, secondo era buono.
Non appena fu davanti al cancello, san Pietro cominciò a porre domande imbarazzanti.
– C’è la questione dell’attico…
– Quale attico?
– Beh, dai, quello in cui hai vissuto.
– Ah, quello lì, anche tu con ‘sta storia?
– Risulta una fattura di 200mila euro addebitata alla Fondazione dell’Ospedale Bambin Gesù. Un ospedale, 200 mila euro che potevano essere devoluti per guarire i malati e tu li hai spesi per ristrutturare casa tua. E poi il terrazzo…
– Oh santa Madonna, anche tu con ‘sta storia del terrazzo…
– Non io: Dio. Ha problemi a ubicarti in paradiso. A meno che tu non ti accontenti.
– Accontentarmi?
San Pietro annuì. – C’è un sottoscala. Nell’appartamento ci vivono due missionari dell’Africa sterminati dai guerriglieri. Di più non si può fare.
Bertone ci rimase male. Dall’attico con vista in San Pietro a un sottoscala. Alla fine, però, accettò, non aveva scelta.
Dunque si trasferì.
I due missionari erano persone a posto. Non davano fastidio, non facevano rumore e sembravano terribilmente in imbarazzo per il fatto che un cardinale vivesse nel sottoscala e loro sopra di lui.
Spesso Bertone rifletteva sulla scarsa gratitudine dimostratagli dall’Onnipotente. Lui che in vita aveva fatto di tutto per divulgare la Sua parola, come veniva premiato?
Se l’eternità era una tale fregatura, si disse, alla fine aveva fatto bene a godersela sulla Terra. Un attico da 300 metri quadri, un mega terrazzo con vista san Pietro, segretari personali…
Alla fine era questo il vero verbo da divulgare: godetevela finché siete vivi, alla faccia di chiunque!
Altroché “beati i poveri”!

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Perché si scrive

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Perché si ha qualcosa da dire
Perché non si ha niente da dire
Perché non si riesce a vivere come si vorrebbe
Perché si vive come si vorrebbe e si è spinti dall’insano desiderio di immaginare una vita completamente sbagliata
Perché le storie hanno un inizio e una fine mentre della vita non ricordiamo l’inizio e non sapremo quando sarà la fine
Perché la vita è al lordo, i romanzi sono al netto di noi stessi (nei romanzi non si va troppo spesso in bagno, il sonno occupa lo spazio di una riga o poco meno – “si addormentò. L’indomani mattina, svegliatosi…”, non si scrivono pagine parlando delle pulizie domestiche o della coda all’ufficio delle poste)
Perché scrivere è un po’ ritornare nei luoghi del passato
Perché scrivere è immaginare i luoghi del futuro
Perché non c’è gioco più bello e inutile di quello del “se…”
Perché è “una notte grigia e tempestosa” e bisognerà pur raccontarlo
Perché niente dà soddisfazione come battere l’ultimo punto
Perché…

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Picchiaduro letterario: Salinger vs Hemingway

JD Salinger, Ernest Hemingway, due autori che hanno fatto grande il Novecento americano. Letti e osannati in tutto il mondo, in vita ebbero occasione di incontrarsi, durante la II Guerra Mondiale. Entrambi soldati, un Salinger misconosciuto che non aveva ancora pubblicato Il giovane Holden, ma solo qualche racconto sul New Yorker, decise di far visita al grande Hemingway, di cui era un fervente ammiratore. Si dice che Hemingway si complimentò con Salinger per i suoi racconti e che Salinger rimase molto colpito da ciò. Insomma, i due si ammirarono (o per dirla alla signor Wolf, si facevano “i pompini a vicenda”).
Ma veniamo alla sfida.
Entrambi questi autori hanno pubblicato romanzi (per la verità, Salinger solo uno) e racconti. Entrambi pongono al centro della loro poetica la guerra e le sue ripercussioni sulla psiche di un’intera generazione.
Chi è il migliore?

Stile
EH è l’autore americano per eccellenza. La sua prosa oggettiva, al risparmio, fatta di pochi aggettivi e molta azione, nonché dialoghi perfetti, ha influenzato tutta la letteratura a venire. Anche JDS, però, ha riprogrammato la lingua americana attraverso il parlato del suo alter ego, Holden Caufield. Una dura battaglia. C’è da dire che la prosa di EH attinge a un realismo che avevamo trovato già nei racconti di Guy de Maupassant, mentre prima di JDS nessuno ha scritto come JDS. Quindi, 
JDS vince

*

Personaggi
JDS deve fama e successo a un solo personaggio, Holden Caufield, il giovane anticonformista del romanzo Il giovane Holden. La sua voce è a tutt’oggi unica e stabilisce un rapporto profondo con il lettore. I personaggi di EH sono certamente meno unici e psicologicamente meno profondi di Holden Caufield, e si rifanno più che altro ad archetipi umani, il marinaio, il cacciatore, il soldato eccetera. Però sono ugualmente umani e li sentiamo nostri.
Un’altra dura battaglia. Alla fine della quale, si va incontro a un
pareggio

*

Ambientazioni
Quelle di JDS sono New York, soprattutto interni – bar, stanze di campus universitari eccetera. Pochi campi di battaglia nonostante abbia partecipato allo sbarco in Normandia. EH era un grande viaggiatore. Visse in Europa a Cuba oltre che in America, ovviamente. Amava il mare e la montagna, ogni luogo in cui la natura costituisse una sfida. La sua è una delle prose di più ampio respiro geografico della letteratura novecentesca.
Quindi…
EH (stra)vince

 

Poetica
Tragica quella di EH come la sua vita: l’autore si suicidò soverchiato dall’alcol e dall’età. Nei suoi romanzi la morte è una costante. Un senso di sconfitta è la cifra stilistica di ogni storia. Drammatica quella di JDS, l’autore degli adolescenti ribelli e disadattati che a fatica si integrano nella società. C’è da dire che quest’ultimo dalla sua, ha un senso dell’umorismo che mancava all’altro. Un eroe salingeriano sopravvive nevroticamente, uno hemingwayano soccombe eroicamente. Anche qui registriamo un
pareggio

*

Ai punti i due scrittori si equivalgono, ma c’è un ultimo parametro dove uno prevale nettamente sull’altro, aggiudicandosi la vittoria: il corpus dell’opera. Quello di JDS è striminzito. Un solo romanzo veramente bello, straordinario che lo ha proiettato nell’empireo dei grandissimi. Poi qualche racconto bello e una saga su una famiglia di piccoli geni – i Glass – che non ha mai convinto fino in fondo. EH ci ha lasciato decine di racconti, tanti romanzi, pagine e pagine di una prosa che non perde mai l’afflato. Quindi, per quanto alla lunga distanza, vince
Ernest Hemingway

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